Vajont 9 ottobre 1963: “le case e i paesi sono come la gente se non li si accarezza muoiono”

di Tiziana Mazzaglia  @TMazzaglia

 

La catastrofe del Vajon, preannunciata e non ascoltata, come tutti i gridi della Montagna. La ricostruzione del fenomeno in 3D, il cortometraggio, le testimonianze e il ricordo di Mauro Corona con l’invito ad intervenire ogni giorno.

 

 

Diga del Vajont. Foto fonte google.

Diga del Vajont. Foto fonte google.

Cos’è successo il 9 ottobre 1963 nei pressi del torrente Vajont, che scorre nella valle di Erto e Casso per poi confluire nel Piave? I testimoni raccontano:

«Avevo sentito da poco la luce, quando avvertii la terra tremare; mi portai dietro le imposte e sentii un forte vento e vidi le luci e le strade emanare un intenso bagliore e poi spegnersi. Mi precipitai verso il letto e afferrai i due bambini che dormivano, (…) li avvinsi a me. Sentii l’acqua irrompere, sballottarmi e mi trovai sola al campo sportivo, su un pino dove l’acqua mi aveva scagliato. Il piccolo è stato ritrovato nei pressi della Rossa di Belluno, mentre la bambina nei pressi di casa mia. I miei genitori abitavano con me e sono stati trovati: mia madre al campo sportivo e mio padre a Trichiana. »

«Quella sera, verso le dieci e mezza, sento un rumore di frana, apro la finestra e aumenta in modo straordinario, contemporaneamente c’era un bagliore che credevo fosse il riflettore, invece poi ho saputo che era il corto circuito dei trasformatori, che ha illuminato quasi a giorno la valle. C’era poi, una colonna d’acqua molto alta, che ha distrutto molte case e il terremoto, con un boato tremendo, spaventoso e tutto il resto. L’onda, più o meno, arrivava alla sommità. »[1]

Queste descrizioni sono di chi ha vissuto l’esperienza in prima persona ed ha avuto la fortuna di salvarsi ad un calcolo di circa 1910 vittime e la distruzione dei centri abitati come: Frasègn, La Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino e ancora, Rivalta, Porago, Faè, Villanova, Codissago.

Quello che è accaduto è stata una frana di una massa compatta di 270 milioni di metri cubi, di detriti e rocce del monte Toc, nel bacino artificiale sottostante dove era stata costruita una diga. Le indagini giudiziarie concluse nel 1971 hanno riconosciuto la responsabilità penale, per la prevedibilità di inondazione e di frana e per omicidi colposi plurimi. Un disastro prevedibile infatti, due anni prima della catastrofe, Tina Merlin, giornalista de L’Unità aveva scritto:

« Si era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della popolazione, si denunciava l’esistenza di un sicuro pericolo costituito dalla formazione del lago. E il pericolo diventa sempre più incombente. Sul luogo della frana il terreno continua a cedere, si sente un impressionante rumore di terra e sassi che continuano a precipitare. E le larghe fenditure sul terreno che abbracciano una superficie di interi chilometri non possono rendere certo tranquilli. »

La giornalista non solo non era stata presa in considerazione, ma era anche stata denunciata, processata e assolta dal Tribunale di Milano, per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. Oggi ne parla lo scrittore Mauro Corona, che richiama l’attenzione verso una montagna che urla e non è ascoltata e dice soprattutto che: “le case e i paesi sono come la gente: se non li si accarezza muoiono”. Molti sono i paesi ancora in pericolo e molti sono i bisogni impellenti dei centri abitati di montagna che hanno bisogno di sopravvivere. Il ricordo di Vajont dovrebbe spingere ad “egregie azioni”, una memoria da cui trarre insegnamento per evitare altre catastrofi.

[1] http://www.vajont.net/page.php?pageid=SEZPG00M

 

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