Origine del Carnevale

Origine del Carnevale

di Tiziana Mazzaglia @TMazzaglia

 

Una ricorrenza di ogni anno di cui pochi conoscono il significato.

imagesPochi conoscono l’origne di questa festività, ricorrente come un periodo in cui ci si traveste con le più svariate maschere. Etimologicamente la parola “carnevale” deriva dal latino carnem levare, cioè l’astenersi dal mangiare la carne nel periodo di Quaresima, fino al giovedì santo, prima della Pasqua. Questo periodo costituiva, per la vita del popolo medievale, un controtempo in cui si costruiva un antimondo, ovvero, un mondo alla rovescia, in cui si sospendevano le attenzioni ai percorsi di vita di Cristo, su cui è costruito l’anno liturgico, per staccarsi in un conto alla rovescia. Una sospensione del tempo al limite tra sacro e profano, in cui attraverso la forma in illo tempore si trasforma il naturale in simbolico. La concezione di dualismo del mondo risale agli albori delle civiltà, infatti, era già presente nella cultura primitiva, dove accanto ai culti seri vi erano quelli comici attui a deridere i primi. Gli uomini nel Medioevo partecipano, così, a due vite, una ufficiale e l’altra giocosa, recitata, quella del carnevale. Un periodo in cui veniva esaltata la corporeità umana e si trascurava l’aspetto spirituale. L’aspetto comico della vita prevaleva su quello serio, creando così una sorta di mondo capovolto con al vertice il divertimento sfrenato esaltando il riso e il divertimento. Il repertorio dei giorni di festa prevedeva tutta una serie di spettacoli popolari, con buffoni, mimi e farse plebee, che malgrado divieti e scomuniche continuano nel volgo.[1] Solitamente si eleggeva un re degli stolti, capovolgendo la struttura piramidale della società e liberando il popolo dai rapporti gerarchici. Buffoni e stolti parodiando il cerimoniale ufficiale elegevano, tra loro, un re e una regina, detti in francese roi pour rire, per celebrare teatralmente una finzione mista alla vita reale. Addirittura veniva manomesso il linguaggio[2] adoperando, in quei giorni, un “linguaggio di piazza”[3] che costituiva una lingua a sé centrata al far ridere, caratterizzata da metafore del basso materiale corporeo e da parole scurrili. Veniva, così, compromessa anche la quiete pubblica e accrescevano gli atti di vandalaggio. A Milano si ha testimonianza che il Cardinale Carlo Borromeo abbia cercato di riportare il decoro nella città vietanto questa festa e contrastandola con l’adorazione delle quaranta ore. Inoltre, aveva posto il divieto ai conventi di ricevere i parenti, in quanto anche i consacrati trasformavano i luoghi sacri in luoghi di festa venendo meno ai loro doveri di preghiera. L’intervento di San Carlo era orientato a riportare il l’attenzione verso il sacro. Tra i suoi divieti ricordiamo quello di togliere statue sacre dalle vie e piazze, per proteggerle all’interno delle chiese, in particolare le statue di devozione[4] Mariana davanti a cui si svolgevano atti squilibrati. Proponeva ai milanesi un periodo di evangelizzazione, in una città caduta nell’indecoroso baccano della festività incontrollata. «Innanzitutto alla ricerca di una netta separazione tra sacro e profano e, in secondo luogo, all’invenzione di forme devozionali che fossero competitive con gli spettacoli profani, con l’obiettivo di fare del teatro di ognuno un tempo totalmente sacro o almeno un tempo in cui il sacro per ognuno avesse precedenza assoluta su tutto».[5] Noi ormai viviamo in un tempo tutto incentrato sul baccano, sul parodiare avvenimenti e personaggi. Nella nostra società il carnevalesco ha invaso la vita quotidiana caratterizzandola di un controtempo costante in cui ci ritroviamo immersi già solo accendendo la televisione. Del resto la politica offre continuamente buoni spunti per vivere in questo clima.

Da Tiziana Mazzaglia, Origini del Carnevale, in «Notizie in… controluce», Agosto 2013, pg. 16, tot. pg. 1 http://www.controluce.it

Per approfondimenti:

Tiziana Mazzaglia, Il carnevale, in «SocialNews», 05/04/2014, tot. pg. 1 http://www.socialnews.it/scuola-2/il-carnevale/

[1] S. D’Amico, Storia del teatro drammatico, Vol. I, 1968, Garzanti, Milano, pp. 179-186.

[2] Il linguaggio di piazza coinvolge anche l’arte, cfr.: J.H. Stubblebine, Assisi and the rise of Vernacular art, icon editions, Harper & Row, Publishers, 1985.

[3] M. Bachtin,  L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979, pp.  158-214.

[4] Cfr., Bachtin M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979. Ginsburg G., Folklore, magia, religione, in Storia d’Italia, I, Einaudi, Torino 1972; Pacciani R., La città come palcoscenico. Luoghi e proiezioni urbane della sacra rappresentazione nella città italiana fra Trecento e Quattrocento, in Ceti sociali ed ambienti urbani, Viterbo 1986; Rivera A., Il mago, il santo, la morte, la festa, Forme religiose della cultura popolare, Edizioni Dedalo, Bari 1988.

[5] Bernardi C., La drammaturgia della settimana santa in Italia, Vita e Pensiero, Milano 1991, p.256. Cfr., Dallaj A., Le processioni a Milano nella Controriforma, «Studi storici», 23 (1982), p. 181.

Back to Top