di Tiziana Mazzaglia
Intervistare non è un semplice atto di raccolta dati, ma un incontro umano, uno scambio che si gioca sul filo sottile della fiducia. L’etica in un’intervista non è una cornice accessoria, è il cuore pulsante del gesto giornalistico. Chi intervista ha una grande responsabilità: quella di ascoltare davvero, senza manipolare, senza piegare le risposte a una tesi precostituita. L’intervistato non è un pretesto per fare notizia, ma un essere umano con la sua storia, i suoi silenzi, le sue fragilità. L’empatia è la prima chiave: saper leggere tra le righe, accogliere l’altro senza giudizio, lasciando spazio anche a ciò che non si dice. Poi viene il rispetto, che impone confini etici precisi: non forzare, non scavare dove la terra è troppo viva, non costringere a racconti che l’altro non è pronto a condividere. «L’intervista è un incontro tra due verità» scriveva Oriana Fallaci, e la verità, come ogni cosa preziosa, va trattata con delicatezza. L’intervistatore dovrebbe possedere anche una forma di pudore intellettuale: evitare lo spettacolarismo, non trasformare il dolore in intrattenimento. Ogni domanda ha il dovere di essere necessaria, giusta, mai voyeuristica. E non meno importante è il dovere di riportare fedelmente ciò che è stato detto, senza distorsioni, tagli tendenziosi o titoli fuorvianti. In un’epoca in cui la velocità rischia di divorare la profondità, tornare a un’etica dell’intervista è un atto rivoluzionario. Come afferma il sociologo Zygmunt Bauman: «Essere umani significa poter ascoltare e comprendere ciò che non è immediatamente nostro». È in questa comprensione che nasce l’intervista autentica: uno spazio sacro dove la parola non è sfruttata, ma accolta.
